Elba
6 Dicembre 2021Guida Isola d’Elba
21 Gennaio 2022«Usciti dall’Ostiense, percorsero la circonvallazione fino ad imboccare l’unico tratto di autostrada dell’Aurelia che da Roma conduce a Civitavecchia per poi proseguire verso Piombino, il porto da dove partono i traghetti per l’Isola d’Elba.
Nilo ormai conosceva a memoria quell’itinerario, i nomi dei paesi che si susseguivano l’uno all’altro, i dossi e le gallerie e i viadotti che si alternavano lungo il percorso, il paesaggio che dalle marine della costa laziale si apriva, mutando colori e ambienti, alle colline e alla campagna della Maremma grossetana per poi riaffacciarsi, tra golfi e insenature, nelle acque dell’Arcipelago Toscano.
Ed è all’uscita dell’ultima breve galleria in leggero pendio, passata Follonica, che sullo sfondo appare d’incanto il profilo sinuoso dell’Elba, come se fosse stato disegnato da mano sapiente e geniale per farne uno scenario unico di rara bellezza nel teatro naturale dell’orizzonte che si confonde, indefinito, fra cielo e mare. Forse fu così che la videro gli etruschi all’inizio dell’Epoca del Ferro, nell’apprestarsi ad attraversare il canale per raggiungerla con le vele e i remi delle loro imbarcazioni primitive e sfruttarne i preziosi minerali. Nei secoli successivi, poi, chi per depredarla e chi per imporvi il proprio dominio, molti altri vi lasciarono tracce significative che ancora oggi restano a testimoniare il loro passaggio, dallo splendore della Signoria dei Medici ai fasti imperiali dell’ultimo Napoleone».
Questo brano introduce il terzo capitolo de La Penna d’Oca, il mio secondo romanzo che, come il primo, La Fatica della Politica, in larga parte è ambientato all’Isola d’Elba con le isole che la circondano, sorelle minori che il mito vuole siano nate dalla rottura della collana di perle che ornava il collo di Afrodite mentre stava sorgendo dal mare. Sette perle per sette isole che con il tempo dettero vita a quello che oggi è l’Arcipelago Toscano e che in più pagine trova spazio nello svilupparsi della descrizione della trama dei romanzi. Come quando, «incurante dell’aria fredda che si insinuava fra le vesti e che le arrossava il viso, Alita volle che Nilo l’accompagnasse sul ponte del traghetto per osservare il paesaggio a tutto tondo, incuriosita e attratta da una visione per lei inconsueta e per molti aspetti affascinante. Avvicinandosi all’Elba già si notava con maggiore chiarezza la striscia allungata di Capo Corso, come fosse il dito di una grande mano distesa sulle acque ad indicare imprecisate rotte di navi e il fantastico mondo del santuario dei cetacei.
Più a nord, sempre ad occidente, la Capraia, figlia di vulcani con le sue pareti a picco ricche di grotte e di anfratti marini, avamposto della Corsica in territorio italiano, ad essa più vicina non solo per distanza ma anche per carattere e storia.
E infine la Gorgona, la più lontana e non sempre visibile ad occhio nudo, che occhieggia alla Meloria e guarda con diffidenza Livorno da cui dipende ed è quartiere, con le due Torri immerse in una rigogliosa macchia mediterranea, ancora luogo di pena e di detenzione e di difficile attracco».
Successivamente non manca un accenno, durante una sosta nel piccolo borgo di Chiessi, «alla striscia piatta di Pianosa, che a dispetto del nome di ‘isola del diavolo’, come un tempo fu definita per via del carcere di massima sicurezza, è un vero paradiso naturale, mentre in lontananza, verso sud, ma ben visibile per la limpidezza dell’aria, si staglia la forma piramidale della fascinosa ed inaccessibile Montecristo».
L’Isola com’era
L’Elba con le sue storie e i suoi personaggi, descritta nel fulgore delle sue estati, «seducente, piena di luci e di vita, affollata e rumorosa, disposta ad indossare nuove vesti, quasi a volersi immedesimare con chi la vive per svago o per trovar riposo, inebriato di tanta meraviglia, fino a invaderla e a trasformarla in un permanente ed ospitale luogo di piacere». Tutt’altra cosa e aspetto quando in tardo autunno ed oltre, «la terra, il mare, le colline, le spiagge e i paesi ritornano ad offrire allo sguardo la loro immagine più autentica e reale e a respirare, dopo la soffocante orgia estiva, l’aria fresca e solitaria della nuova stagione».Riappare, così, Nisportino com’era, «poco più di una decina di case in parte nascoste dal verde dei pini marittimi e di una diffusa macchia mediterranea, con piante di fichi, mandorli e qualche vigneto, e qua e là rovi di more, le piante grasse delle agavi, fichi d’india e olivi. L’acqua era quella di sorgente, dietro la collina verso i Mulini, e a sera, quando imbruniva, le stanze si rischiaravano alla luce delle acetilene alimentate a carburo, perché ancora la zona era sprovvista di rete idrica e di elettricità, e neppure la strada esisteva, se non un’impervia mulattiera che si arrampicava fin su al pianoro dell’Aia di Cacio per poi scendere verso l’Acquavivola e da lì raggiungere l’antico paese di Rio».
E che dire di Ortano, quando «a ridosso della spiaggia, dove la sabbia cominciava a mischiarsi al terriccio, c’era una tamerice che faceva ombra con la sua chioma tondeggiante e colorata alla casa di Albano1, mentre, guardando il mare, sulla destra a piè di monte, occhieggiavano gli ingressi delle gallerie da cui uscivano i binari con i carrelli colmi di minerale verso il pontile in ferro che si allungava oltre la scogliera».
E ancora, frugando nel passato, dopo aver percorso la strada della Parata che congiunge ad anello l’abitato di Cavo con Rio Elba, ecco la Valle dei Mulini, «una delle più straordinarie opere d’ingegneria idraulica fino ad allora realizzate, con un complesso sistema di ventidue mulini e i relativi bottacci2, che utilizzando l’acqua di sorgente di cui è ricca la zona, macinavano grandi quantità di granaglie e cereali dando lavoro a tutto il versante».
Nell’intreccio delle vicende amorose che percorrono l’intero sviluppo della trama romanzesca, emergono dalla memoria figure e personaggi che paiono fondersi in un processo osmotico con l’isola e il suo ambiente.
È il caso di Paul Klee che in un mattino di settembre del 1926, lascia Villa Ottone, dov’era ospite, per inerpicarsi su verso il pianoro delle Panche allo scopo di «disegnare a penna il panorama sottostante e il villaggio di Rio prefigurando sulla carta l’insieme armonico delle case ammucchiate lungo il pendio della collina, con i tetti e le mura, un viale alberato, il grande arco di ‘for di porta’ e al centro la chiesa e il campanile, rappresentati in varie forme geometriche tra brevi spazi con cubi, triangoli, quadrati e parallelepipedi».
Dopo di ché l’artista volge lo sguardo ad occidente per riprendere il profilo della cinquecentesca Cosmopoli, «con il suo golfo e la linea delle sue fortezze, in primo piano una piccola barca a vela sorpresa davanti al Grigolo, sullo sfondo le ciminiere dello stabilimento con uno sbaffo di fumo, il faro e le due torri del Gallo e della Linguella a far da guardiani al porto mediceo».
Ed è in quel luogo straordinario che oggi, come allora, ci si può inebriare per la visione di un paesaggio che da un versante «offre la visione di spettacolari e infuocati tramonti che paiono incendiare il mare tra la Corsica e la Capraia, e dall’altro quella di incantevoli e purpuree aurore che a oriente colorano il cielo nell’abbandono dell’alba».
Personaggi che l’hanno scelta e amata
Altri personaggi, che nell’estate del 1978 scelsero l’Elba per le loro vacanze lasciando la loro traccia indelebile nei luoghi dove soggiornarono, furono Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao.
Il primo, ospite della Villa Mieli a due passi dal Cavo in località Le Paffe, adottò, per sé e la famiglia, la spiaggia delle Fornacelle, «un fondo di ghiaia mista a sabbia lucente di polvere ferrosa, simile ad altre spiagge esposte a levante lungo la costa orientale dell’isola, ombreggiata da lecci e lentischi e lo scorcio sul canale con di fronte gl’isolotti di Palmaiola e Cerboli, sentinelle avanzate dei due comuni minerari».
Il secondo, allora presidente della Camera, prese in affitto la casa di un tal Ruffini nella frazione portoferraiese del Viticcio, nei pressi del ristorante “Da Giacomino”, dove pressoché ogni sera, con moglie, figli e figlie, si recava per la cena, occupando un tavolo su quella splendida terrazza, incastonata sulla scogliera a picco sul mare, che ancora oggi fa mostra di sé e da dove Pietro, anticipando l’arrivo, soleva godersi «l’ora in cui il sole tardava a ritirarsi in uno sfolgorio di colori abbaglianti dal rosso al viola, per poi annegare, con un guizzo verde, nell’incomparabile scenario che dalla punta della penisola dell’Enfola fin oltre Capraia faceva da palcoscenico ad una sempre mutevole e straordinaria rappresentazione della natura». Ed anche in autunno avanzato, «ingabbiata da una vetrata che la protegge dalla fresca brezza notturna, quella terrazza tanto amata da Pietro, mantiene il suo fascino ed una rassicurante intimità, mentre da un lato, verso la spiaggia coperta da un tappeto di alghe brumastre, occhieggiano tremule le tamerici sempreverdi e le alte fronde del pino marittimo, e dall’altro, aspra e scogliosa, si allunga la costa che onde irrequiete schiaffeggiano senza tregua».
Nel prosieguo delle storie che caratterizzano lo svolgimento dei romanzi, l’isola offre vari e molteplici volti naturali, ciascuno diverso dall’altro e pur sempre sorprendenti e suggestivi.
Nei cito solo alcuni.
Uno sguardo a Occidente
Il percorso per Campo alle Serre, la punta estrema del versante occidentale, verso cui i due protagonisti, «dopo aver raggiunto Marciana ed affrontato l’erta che conduce alla Madonna del Monte, si erano incamminati, di prima mattina, costeggiando i fianchi della montagna fra ruscelli e granitiche rocce in mezzo ad una diffusa e rigogliosa macchia mediterranea punteggiata dal giallo delle ginestre e da lucenti corbezzoli. Il sole era già alto quando in lontanza, dopo quasi due ore di cammino, intravidero la geometrica figura del semaforo sulla sommità di un lieve promontorio al termine di un pendio dai lati scoscesi a dirupo verso il mare. Dietro la facciata del semaforo dall’intonaco scrostato, una volta dipinta a scacchi bianchi e neri, si ergeva ancora il traliccio dell’antenna radio, quasi volesse testimoniare indomito l’importanza di un servizio prestato per oltre mezzo secolo a beneficio della comunità».
Uno sguardo ad Oriente
Da un versante all’altro, la sosta sul pianoro di San Felo, da dove la vista si allungava verso la Valle dei Sessanta e la spiaggia di Ortano, fin oltre il mare e la costa continentale da Follonica a Punta Ala. Sulla destra svettava il profilo di Capo d’Arco, dietro il quale si poteva immaginare l’andamento frastagliato delle sottostanti scogliere di Punta delle Cannelle che fronteggiavano le onde per interrompersi e addolcirsi nell’incontro con la spiaggia e il laghetto di Terranera; e dall’altro lato, seminascosto s’intravedeva il borgo di Rio con sullo sfondo la Torre del Giove, l’Eremo di Santa Caterina e la terra di Grassera percorsa dalla strada della Parata verso Cavo».
Da San Felo a Rio Marina, dove alla destra del viale che conduce al centro del paese, «resta ancora abbandonata a sé stessa la vecchia officina che per decenni ha rappresentato il cuore pulsante di un settore strategico dell’attività mineraria ed ora residuale testimonianza di un tempo in cui il ferro e la vita degli uomini parevano compenetrarsi in una così naturale osmosi antropologica da rendere sempre più simile l’uno agli altri e viceversa.
Le facciate delle case, come nell’antico borgo collinare, rimandavano il luccichio della sabbia piritosa con cui era stata impastata la calce per la loro costruzione, una polvere mineraria nera diffusa in tutte le spiagge di quella che oggi porta il nome di Costa che brilla.
Il paese, in realtà, era solo un’appendice della miniera, che la miniera aveva generosamete accolto offrendo le sue viscere al lavoro degli esseri umani per consentire loro e alle loro famiglie di ricavarne il sostentamento necessario per sopravvivere. Ma seppure da sempre così generosa, talvolta, quando la miccia troppo corta o l’imprudenza facevano esplodere anzitempo la mina, la miniera tratteneva a sé l’uomo in un abbraccio così forte da confonderlo e mischiarlo con la sua terra rossa e rugginosa. Quella terra pregna di biossido di silicio che a respirarla, giù nelle gallerie e nei pozzi fin sotto il livello del mare, rinsecchiva e anneriva i polmoni, fiaccando corpi ancor pieni di energie, così da anticiparne la fine e lasciar sole giovani vedove e orfani in tenera età».
Quando la nave se ne va
E infine la partenza, l’isola che scivola via nel tratto di mare che la separa dal continente avvalendosi del cordone ombelicale del traghetto di turno. Ma prima di affacciarsi «al mare aperto del canale, l’Elba offre alla visione del passeggero una parte di sé che merita di essere meglio osservata e ammirata nella sua selvaggia bellezza anche da chi, abitante dell’isola, la ritiene così consueta e familiare da essere ignorata. Da Punta Pina fino a Capo Vita è un continuo susseguirsi di piccole insenature sabbiose e acciottolate, di scogli rosa, anfratti, massi biancastri levigati dalla millenaria carezza delle onde, strapiombi e vallate e lievi declivi aggrediti e coperti da una invadente e verdeggiante macchia mediterranea. E come a ricordarci altre epoche e vicende di un lontano passato, si ergono, sulla sommità di rocciosi costoni o su radi pianori nelle cime dei monti, gli antichi guardiani del mare: dall’imponente castello del Volterraio che domina la valle di Bagnaia e il golfo, al minuscolo edificio che fu guardia di sanità sul promontorio che separa Nisporto da Nisportino, per finire al semaforo di Monte Grosso, un tempo stazione meteorologica e di avvistamento di quella che fu la Regia Marina».
Vista dagli altri
Una giovane intellettuale, Silvia Leone, nel recensire La Penna d’Oca ha scritto che nel libro «l’Elba è molto più di una bella scenografia, molto più di un’isola per il turismo di massa. L’Elba che vive anche quando le luci si spengono, il rumore cessa e le spiagge si svuotano, con la sua pace, le sue tradizioni, i suoi passaggi evocativi, il carattere dei suoi abitanti e la memoria di personaggi importanti, legati all’isola per nascita o elezione. L’Elba come quel paese che, a detta di Cesare Pavese, ci vuole, non fosse altro per il gusto di lasciarlo con la consapevolezza che, da devoto genitore, resterà sempre lì ad aspettare il ritorno del figlio».
Gli fa eco Nicola Colombo, giornalista e scrittore siciliano, che nella recensione dell’altro libro, La Fatica della Politica, parla di una «sorta di magia che solo la memoria che non rinnega sé stessa è in grado di offrire. L’Autore lo fa in una cornice unica, straordinaria, che è quel luogo, l’Elba, in cui ogni spicchio di paesaggio è un ritratto virato seppia, o per meglio dire, data l’intensità poetica della descrizione dei luoghi, un ‘pastello’, un idillio quasi leopardiano».