Un gozzo per una “vita a tu per tu” con il mare
28 Settembre 2023L’Elba e le sue piazze
3 Ottobre 2023Dinanzi alla visione della grande ricchezza delle mineralizzazioni ferrifere del versante orientale dell’isola, Vannuccio Biringuccio, studioso senese di metallurgia, non poté fare a meno di esprimere la propria meraviglia e di esclamare «che avanza ogn’altro luocho in che tal maniera si trovi».Quando sbarcò all’Elba erano all’incirca gli anni in cui veniva alla luce quel Cosimo I de’ Medici che alla metà del‘500 dette avvio alle fortificazioni della città della Ferraia, non a caso per secoli così denominata, e che poi in suo nome prese il nome di Cosmopoli.Prima di allora, fin dalla preistoria, altri uomini avevano solcato il mare, abitato l’isola e utilizzato la risorsa mineraria. Intorno al 2000 a.C. giunsero all’Elba e cominciarono a scavarla i primi metallurghi, seguiti poi dai Liguri Ilvates, da cui l’isola prese il nome di Ilva, e ancora greci, fenici, etruschi, romani, lasciando nel tempo significative tracce del loro passaggio. Ma a Vannuccio Biringuccio, autore di un famoso manuale di metallurgia dal titolo De la pirotecnia, va il merito di aver dettagliatamente descritto per primo le sue esperienze elbane con dati e osservazioni scientifiche su tutta la fascia costiera compresa fra l’abitato di Rio Marina e quello di Cavo. Tre secoli più tardi un altro viaggiatore, il francese Arsenne Thièbaut De Berneaud, in un libro da lui titolato Voiage a l’Isle d’Elbe si avventurò in una scrupolosa ricerca degli antichi resti delle miniere abbandonate, offrendo un interessante spaccato sulla risonanza scientifica e pratica che avevano avuto le miniere e i minerali dell’Elba sulla cultura illuministica e rinascimentale. Siamo nell’800 e dopo De Berneaud molti altri importanti personaggi si susseguirono attratti da interessi scientifici e naturali, affascinati da quello che fu definito un “grandioso museo mineralogico all’aperto”. Meno interesse, purtroppo, fu dedicato alla condizione e alla organizzazione del lavoro, efficace per quanto primitiva ma anche avvilente per il degrado e lo sfruttamento inumano a cui venivano sottoposti i lavoratori. Alcuni lo fecero e quel che segue rende bene l’idea:
«I picconieri o minatori che eseguiscono lo scavamento dirupando sempre quasi a piombo il monte, mediante picconi, pali di ferro, o mine, e facendo precipitare in basso tutte le sostanze che scavano; gli zappatori scelgono poi i pezzi buoni del minerale; i carrettai caricano le cattivanze e gli spurghi per portarle alle gettate; i rompitori spezzano i pezzi più grandi dei blocchi di minerale; i somarai caricano gli asini che in lunghe gite porteranno la vena del ferro alle scottiere, sulla piazza della marina, dalla cui spiaggia si protende in mare un lungo pontile di legno per il caricamento dei barconi da trasporto; gli stederani pesano la vena e quaranta o cinquanta facchini, mettendola in piccole ceste, vanno di trotto a gettarla nel legno che è prossimo al ponte. Effettuato il carico, il barcone salpa, apre le vele e si dirige verso Follonica o verso qualche altro punto della Maremma o del resto d’Italia».Ovviamente con il tempo le cose sarebbero cambiate. L’apertura di nuovi cantieri, la costruzione di fabbricati industriali, laverie, tralicci, gallerie, nuove strade e binari necessari a una maggiore razionalizzazione del lavoro e all’ampliamento dell’attività estrattiva, mutarono la fisionomia del territorio, che non fu più quello vergine e incontaminato che apparve agli occhi curiosi e meravigliati di Vannuccio Biringuccio, quando da Siena raggiunse per la prima volta le sponde dell’Elba. Ciò nonostante le condizioni di vita e la quotidianità dell’esistenza dei minatori continuavano ad essere dure e pesanti, così come mirabilmente descritto nei versi del poeta Bartolomeo Sestini:«Giù tra i serpigni / precipizi marini, ecco, / uomini come formiche / per l’una costa e per l’altra / s’aggirano salgono stanno / discendono e stanno / discendono e stanno, / tornano e vanno per vie / precise / ragni su fili / invisibili, senza comando: / s’affannano come formiche / e scavano e incrinano e frangono / e forano e battono battono / con la costanza degli elementi, / con battiti crudi, con folli / trivelli prillanti / sotto l’impulso / della magica corrente / finché la montagna si stanchi».
Un protagonista della storia di Capoliveri nei primi decenni del ‘900, Ezio Luperini, ricorda che «d’inverno i minatori dovevano lasciare le case quando era notte per poi percorrere 6 chilometri a piedi per strade impervie, fino al luogo di lavoro, per essere pronti all’ora stabilita, con il piccone in mano, ad iniziare il duro lavoro quotidiano a cottimo. Lavoravano fino al tramonto, con una mezz’ora d’intervallo per il pasto: un pezzo di pane bagnato nell’acqua e, per companatico, cipolla, aglio e zenzero. Alla sera tornavano a casa sfiniti, dopo aver ripercorso in senso inverso la strada percorsa al mattino: a casa li attendevano la moglie, i figli, il minestrone di pasta e fagioli, il letto per riposare».A queste immagini mi sovviene di aggiungere quelle personali, tramandate oralmente da mio padre quando ancora ragazzo, poco più che bambino, accompagnava mio nonno con le scarpe a tracolla per non consumare le suole nel cammino verso la miniera molte ore prima che dal mare sorgesse il sole. Ricordi del passo pesante dei minatori, in tempi più recenti, che si apprestavano a raggiungere la piazza del paese su dall’erta delle “murelline” per salire sulla cigolante corriera che da Rio li avrebbe condotti alla miniera del Ginevro e a quella di Rio Albano.Per quegli uomini la miniera era tutto, la miniera era ovunque, era sulle facciate delle case che rimandavano il luccichio della sabbia piritosa con cui era stata impastata la calce necessaria alla loro costruzione, una polvere mineraria nera diffusa in tutte le spiagge di quella che oggi porta il nome di “Costa che brilla”.I paesi, in realtà, erano solo
un’appendice della miniera, che la miniera aveva generosamente ospitato offrendo le sue viscere al lavoro umano e alla possibilità che da esso i minatori e le loro famiglie potessero sfamarsi e avere un tetto dove ripararsi dal freddo e dal gelo. Ma talvolta, quando la miccia troppo corta o l’imprudenza facevano esplodere anzitempo la mina, la miniera tratteneva a sé l’uomo in un abbraccio così forte da avvolgerlo e mischiarlo con la sua terra rossa e rugginosa. Quella terra pregna di biossido di silicio che a respirarla, giù nelle gallerie e nei pozzi fin sotto il livello del mare, rinsecchiva e anneriva i polmoni, fiaccando corpi ancor pieni di energie, per anticiparne la fine e lasciar giovani vedove e orfani in tenera età. Ora che le miniere sono chiuse da tempo, restano gli “scheletri” arrugginiti dei pontili, i vecchi cantieri abbandonati e franosi, storiche e corrose presenze di un paesaggio unico di terra e di mare che il regista elbano Stefano Muti ben rappresenta nel suo bel documentario Il fischio della sirena, avvalendosi anche della voce degli ultimi e anziani minatori ancora in vita. «Quando ho iniziato a pensare ad un progetto sulle miniere dell’Elba», dice Stefano, «non avevo ben chiaro quale fosse il prodotto finale, avevo chiara però l’urgenza di bloccare per sempre un patrimonio di ricordi e di emozioni che poteva essere restituito solo dalla testimonianza diretta dei protagonisti, dai quali, parlando, affiorano la rabbia per i soprusi subiti e il dolore ancora vivo per i compagni scomparsi, ma anche l’orgoglio per le lotte vinte e la fierezza di aver contribuito, con il loro lavoro, allo sviluppo del paese».
A ricordare la storia di una civiltà e di una cultura che è stata costruita anche dal lavoro e dall’impegno di gente umile, di minatori e di operai, vite vissute per secoli in condizioni di fatica, di miseria e di sofferenza, esiste oggi nel versante riese un Parco minerario, nato nel 1991 con l’obiettivo di riconvertire le aree degradate dall’estrazione del ferro e di custodire un patrimonio geologico, mineralogico e storico di inestimabile valore. Per scoprire l’affascinante e antica storia del ferro e ripercorrere il faticoso lavoro dei cavatori è possibile anche effettuare una visita guidata alla miniera del Ginevro e al Museo della Vecchia Officina, situate nella zona del capoliverese, sul monte Calamita. Una miniera che mi ha ispirato i versi che seguono: “Ho strappato / un lembo di tramonto / e l’ho dato / alla terra rossa di Calamita. / Nell’orizzonte / dov’era / ho messo la vecchia miniera”.
L’articolo, scritto da Danilo Alessi, ex sindaco del Comune di Rio nell’Elba e autore di molti libri, è stato pubblicato nel magazine di promozione turistica Elba Per2 e non solo… Edizione 2023/2024.