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6 Gennaio 2025“Il cielo, il mare e noi sospesi nell’energia delle pietre antiche che parlano con le stelle”.
La Costa del Sole ha tre celeberrime regine: Cavoli, Seccheto e Fetovaia, annoverate tra le spiagge più belle dell’Isola d’Elba e meta di migliaia di turisti. Visitatori perlopiù ignari che, inerpicati sui pianori di questo scampolo di paradiso, si celano tesori dimenticati da tutti e coperti dalla vegetazione. Tra i cisti, i corbezzoli e le scope in fiore giacciono testimonianze millenarie lasciate da popolazioni che scelsero questi luoghi in epoca neolitica. Qui i nostri progenitori coltivavano la terra, custodivano gli animali e osservavano il cielo. Tra i 335 e i 430 metri s.l.m. sopra la frazione di Seccheto (sentieri n°137 e n°135) si trovano le Necropoli di Piane alla Sughera e della Forca, quest’ultima sconosciuta ai più, perché è ancora immersa nella macchia mediterranea. Il sito di Piane alla Sughera (335 metri s.l.m.), consta di alcune tombe preistoriche a cista litica, al centro di tumuli delimitati da circoli di pietre e corredate esternamente da segnacoli (piccoli menhir[1]). Tra queste ne spicca una, evidentemente rimaneggiata in tempi recenti, con la creazione di un grande ovale, fatto con un muretto a secco e semichiuso superiormente da un lastrone litico. I resti dell’enigmatica necropoli hanno ispirato antiche leggende elbane che narrano di un luogo sacro dove i megaliti, disposti in forme circolari e rettangolari, fungevano da sepolture e da templi per celebrare riti propiziatori accompagnati da canti e danze. Dopo circa 2 km si lascia il sentiero n°135 per avventurarsi nella vegetazione per 250 metri; qui si trovano alcune testimonianze di una seconda zona di sepolture tra cui una tomba a cista litica priva di copertura e un bel menhir affacciato sulla spiaggia di Fetovaia, rinvenuti nel 2018, e un altro menhir da me segnalato il 13 marzo 2024, ma ancora non censito da nessun archeologo. L’area attualmente è immersa nella gariga[2], anche se è stato aperto un piccolo varco, ed è indicata su Google Maps come Necropoli della Forca (430 metri s.l.m.).
Non risultano ad oggi pubblicazioni su questa seconda area, salvo alcuni passaggi nel libro Formazioni rocciose dell’Elba occidentale di Silvestre Ferruzzi (2019, Persephone Ed.), che fanno riferimento ai racconti orali del pastore Evangelista Barsaglini, scomparso nel 2016, secondo il quale le sepolture presenti su quel pianoro sarebbero state almeno tre. Le tombe, i menhir e i segnacoli di Piane alla Sughera e della Forca potrebbero essere riconducibili al megalitismo sardo e corso. Le similitudini con le Necropoli di Li Muri presso Arzachena in Sardegna, e di Monte Revincu in Corsica, sono molteplici e queste vengono datate entrambe al Neolitico, ma, nel nostro caso, in assenza di scavi archeologici corroborati da datazioni scientifiche, è difficile fare ragionamenti che vadano oltre a meri confronti. Certo è che la bellezza selvaggia del luogo, l’atmosfera densa di energie e il panorama ripagano completamente il visitatore del dislivello positivo da affrontare (+ 430 metri). Disseminate ovunque nell’intera area occidentale elbana, si possono spesso scorgere sulla superficie grezza delle còti (massi granitici), numerose cavità formate per la maggior parte dall’erosione naturale degli agenti atmosferici. Sembra però che alcune di queste “coppelle”[3] nel granito siano state create di proposito dall’uomo come “catini litici” dalle forme più svariate (circolari, ellittici, triangolari o a reticolo). Le cavità in origine potrebbero essere state usate come antichi contenitori per la raccolta dell’acqua piovana, per poi acquisire nel tempo funzioni sacrali e taumaturgiche legate a riti di libagione. Oppure come riferimenti di geo-siti con funzioni di “osservatori astronomici”. Così ci racconta con dovizia di particolari l’archeologa romana Tatiana Melaragni, agile minuta figura che si muove tra i massi con grande spirito di ricerca e una passione contagiosa. «Il primo studioso di “coppelle” o cups marks è stato William Borlase nella seconda metà del’700. Successivamente gli studi sono stati ripresi negli anni ’60, grazie al lavoro anche grafico dello studioso, ci spiega Tatiana Melaragni; in entrambi i casi, per mancanza di reperti archeologici e fonti scritte, si è è preferito abbandonare le ricerche. Negli ultimi 10 anni
la materia ha cominciato ad entrare negli interessi di storici, astronomi, fisici, archeologi e appassionati di escursionismo e si è cominciato a porsi degli interrogativi in merito alle chiare presenze di lavori antropici su pietre e massi chiamate comunemente “coppelle”o usando un termine tecnico “catini litici”. Sono stati ripresi gli studi, identificando le coppelle come l’unica forma di scrittura che ci permetta di avere spiegazioni sulle comunità neolitiche, ed in particolare sul rapporto che esse avevano con il cielo e la terra. Le “coppelle” avevano funzioni sia utilitarie che sacrali: disposte verticalmente sui massi, erano come fari che permettevano di illuminare i confini ed i massi anche al buio, determinando limiti territoriali. Disposte “a grappolo” dalla più grande alla più piccola, trasversalmente dall’alto verso il basso, erano usate per i riti di libagione e venivano riempite di alimenti liquidi che dovevano scorrere lungo il masso, fino ad arrivare e penetrare nel terreno, rendendo grazie alla Madre Terra e accattivandosi la sua protezione. Le comunità di epoca neolitica (era della nuova pietra), ma anche di epoche successive, si radunavano, guidate da un sacerdote (sciamano), e chiedevano miracoli e grazie alla così detta Madre Terra. Il sacerdote si posizionava in quello che chiamiamo solium, cioè un principale masso, sedia o punto di osservazione del movimento solare. Le “coppelle” avevano funzione di piccole miniere dove estrapolare minerali e lavorare i metalli al fine di purificarli, grazie anche al contenuto di rame e di arsenico. Alcuni reticoli idrici disposti nell’estremità bassa delle “coppelle”, potrebbero confermare il passaggio dei metalli fusi. Talvolta esse diventavano delle vere e proprie mappe astrali che riproducevano le costellazioni visibili ad occhio nudo e permettevano di stabilire i periodi legati alle attività agricole. Da un ventennio si parla di archeoastronomia, una disciplina che ancor’oggi desta perplessità.
come ci racconta anche il poeta Esiodo nel VII sec. a.C. nell’opera Le Opere e i giorni . L’antico poeta narra come l’apparire delle Pleiadi che illuminavano il cielo d’estate, segnasse il tempo della mietitura e la loro scomparsa indicasse il momento di arare il terreno. Vari siti presentano “coppelle” rappresentanti costellazioni come Orione, Cassiopea (simbolo dell’acqua), la costellazione del Cigno ed in particolare il “triangolo estivo” che si va a formare con la congiunzione di Deneb (coda della costellazione del Cigno), Vega (costellazione della Lira) e Altair (costellazione dell’Aquila). L’apparire del triangolo conferma l’arrivo del solstizio d’estate. In altri casi troviamo tre “coppelle” circolari, dalla più grande alla più piccola disposti in modo lineare: essi rappresentano l’allinearsi della Luna con Venere e Marte e l’avvento dell’equinozio di primavera ».
[1] I menhir (dal bretone men e hir “pietra lunga”; in italiano anche “pietrafitta”) sono dei megaliti (dal greco “grande pietra”) monolitici (da non confondere con i dolmen polilitici e solitamente assemblati a portale), eretti solitamente durante il Neolitico e potevano raggiungere anche più di venti metri di altezza, come ad esempio il Grand Menhir rotto di Locmariaquer ( nel Morbihan in Bretagna).
[2] Tipo di boscaglia mediterranea costituita da arbusti e suffrutici sempreverdi molto bassi (rosmarino, timi, ginestre, palma nana ecc.) tra i quali vegetano abbondanti specie erbacee.
[3] Con il termine “coppelle” (cup marks, cupùles, Schalenzeichen) indichiamo incisioni rupestri eseguite dall’uomo su roccia, a forma di coppa o scodella, di dimensione variabile: in alcuni casi si rilevano isolate, in altri numerose, sulla medesima roccia. Le coppelle si ritrovano sulle rocce in molti luoghi del mondo e, solo alla fine dell’Ottocento iniziò un vero interesse per queste incisioni, si moltiplicarono le segnalazioni e si iniziò ad approfondire i motivi per cui le coppelle appaiono presenti in culture del tutto diverse.
L’articolo è stato scritto da Valerie Pizzera – guida turistica e ambientale e giornalista che collabora con il magazine di promozione turistica Elba Per2 e non solo… e con il quotidiano nazionale La Nazione – e pubblicato nell’edizione 2024/2025 di Elba Per2 e non solo…