Arcipelago Toscano
5 Agosto 2022Festa dell’uva
9 Agosto 2022Albero originario dell’Europa balcanica e della Turchia – ove esisteva la città di Castanis – il castagno fu introdotto nella penisola italiana in età romana soprattutto in vista delle sue coltivazioni a ceduo¹, onde trarne pali agricoli, denominate silvæ palaris; poi, durante il Medioevo, la coltivazione di questo prezioso albero conobbe un nuovo impulso ad opera dei sempre più numerosi monasteri europei. Le prime attestazioni sui castagneti elbani risalgono infatti al 1343; si tratta di due documenti redatti dal notaio Andrea Pupi riguardo la compravendita di terreni boschivi presso Poggio – terre cum castaneis – e nella rigogliosa valle di Patresi. L’importanza di tale copertura boschiva è comprovata, due secoli dopo, dalla lettera che l’architetto Giovanbattista Belluzzi, durante la fortificazione di Portoferraio, scrisse al granduca Cosimo nel 1548: «et anco qualche castagno per la via di Marciana, con certe tavole di castagno per coprire questi alloggiamenti». Dell’estensione di tale coltura sono ulteriore testimonianza alcuni toponimi elbani come Campo al Castagno (Marciana e Sant’Andrea), Castagni dei Sette Fratelli (Poggio), Castagni di San Lorenzo e Castagno delle Liti (Marciana), Castagnolo (Patresi), Castagnone (San Piero), Castagni di Marco e Castagni (Capoliveri), Castagno (Cavo). Un paesaggio unico per un’isola mediterranea, quello delle vallate intensamente ricoperte di castagni, già apprezzato nel 1780 dal naturalista Charles Henri Koestlin, secondo il quale tale prezioso albero «est si commun près de Marciana qu’il forme quasi une forêt» con ben 847,67 “quadrati” di territorio montano rispetto ai rimanenti 10.284,45 di leccete, macchie e boscaglie. Il castagneto elbano era suddiviso in due differenti tipologie di appezzamento: le “vele” (dalla forma triangolare, con la base corrispondente al fondovalle) e le “lenze” (rettangoli oltremodo allungati, che si estendevano dai crinali ai torrenti). L’innesto del castagno avveniva nella prima metà di aprile; scelto un vigoroso pollone selvatico, l’“innestino” lo tagliava a mezzo metro dal suolo e vi inseriva, con la tecnica “a zufolo”, una “panella”; questa era costituita da un tubicino cavo di corteccia prelevato da rametti di castagni già innestati. Le castagne venivano raccolte dopo che si erano scavati sui terreni, quasi sempre in forte pendio, dei solchi di contenimento per la caduta di queste, chiamati “rette”. Le castagne si distinguono in più qualità: le “marroni”, i cui vistosi esemplari vengono detti “biocchi” e derivano da castagni innestati, le “carpinesi” (dalla forma allungata, ottime per produrre farina), le “scarlinesi” (di grossa taglia e a sezione triangolare, da castagni innestati) ed infine le “selvane” (originate da castagni selvatici, non innestati). Per realizzare la farina, le castagne venivano dapprima essiccate in un apposito edificio chiamato all’Elba “seccaiola” (“metato” in Garfagnana) e costituita da un locale con un soppalco in legno, il “solaiolo”. Veniva poi acceso un fuoco, con poca fiamma e molto fumoso, che in una ventina di giorni essiccava le castagne; dopo una battitura dentro balle di iuta, erano spulate in giornate di forte vento e infine macinate nei mulini alimentati dalle acque dei torrenti. Questi edifici possedevano una grande vasca in muratura – il “bottaccio” – in cui si accumulava l’acqua tramite una deviazione dei torrenti (“gora”). Scendendo dalla condotta forzata (“doccia”), il flusso idrico ricadeva sul “ritrecine”, ossia la ruota orizzontale posta nel “carceraio”; il “ritrecine” azionava così la soprastante macina (“mola”) composta da due grossi elementi in pietra, quello inferiore fisso (“ceppo” o “dormiente”) e quello superiore (“coperchio”) spinto, tramite un perno detto “nottola”, da moto orizzontale. I mulini elbani utilizzavano il “ritrecine” – «in uso nella maggior parte dei mulini della media e bassa Italia», secondo l’ingegnere ottocentesco Giuseppe Florio – dacché, considerata la poca portata dei torrenti, ottimizzava il lavoro dei mugnai. All’Elba il primo mulino (“molendino”) è documentato nel 1364 lungo il Fosso di San Francesco a Sant’Ilario, mentre dal Cinquecento, nel Marcianese, esistevano diversi mulini tra cui quello di Buccetto, di Cavallone, di Matteo di Pirro, dei Pardacci in località Panicale a Marciana e quello di Tannino. La dolce farina di castagne veniva utilizzata per produrre pane e una particolare polenta, la cosiddetta “pulenda dolce”. Oltre che per i frutti, il castagneto era utilizzato come fonte di pregiato legname; il taglio degli alberi, durante il quale era molto ricercata una pregiatissima varietà di castagno dal legno di colore rossastro (il cosiddetto “volpino”), prevedeva di lasciare le “matricine”, ovvero i nuovi virgulti delle ceppaie, ad una distanza di circa 7 metri l’una dall’altra. Gli alberi che dovevano essere tagliati venivano preventivamente segnalati tramite il colpo di una particolare accetta, con la quale si rimuoveva parte della corteccia e si marchiava con un’ulteriore percossa della parte retrostante, che possedeva un marchio circolare o quadrato spesso con le iniziali del proprietario. Una volta tagliati, dai tronchi di castagno venivano rimossi i rami e la corteccia con la pesante e poco maneggevole roncola chiamata “ristaia” – dal latino falx rustaria – e tramite la più pratica “pennata” (dal latino falx pinnata, in riferimento alla lama retrostante presente in alcuni esemplari) introdotta sull’isola dai carbonai emiliani definiti dai boscaioli elbani impropriamente “lombardi”. Ulteriore passaggio era costituito dalla squadratura dei tronchi effettuata con la “squadratora”, una grossa scure dalla larga lama; successivamente, con dello spago intriso di minio – teso con due dita e fatto scattare violentemente sul legno – venivano tracciate le linee di taglio per realizzare i tavoloni. I tronchi erano quindi sezionati con il segone azionato, tramite movimento verticale, da due boscaioli, i cosiddetti “segantini”. Ultimati i tavoloni, venivano portati a dorso di mulo sulla strada e disposti in cataste a strati orizzontali (“barcaie”) alte persino 4 metri, con spazi per la necessaria aerazione; alla testata di ogni tavolone era inchiodato un pezzetto di latta ritagliato in forma rettangolare, che aveva la funzione d’impedire al legno di spaccarsi. Erano poi venduti, tramite misurazione con il calibro, ai falegnami, che li richiedevano per realizzare prevalentemente finestre, e a contadini o privati che acquistavano anche filagne – ossia lunghi pali di castagno – per costruire pergole nei numerosi “magazzeni” sparsi nelle campagne elbane. Altri strumenti del boscaiolo elbano erano la “picozza” (grossa scure), la “picozzina”, il “marriscuro” o “manescuro” – grande zappa con cresta tagliente in opposta direzione – il maglio (mazza in duro legno di leccio con ghiere di ferro), utilizzato per spezzare grossi tronchi di castagno battendo sulla “zeppa”, cuneo in ferro.
Marciana e Poggio sono il setting perfetto per la Castagnata, la festa che da trent’anni anima questi due borghi medievali. Le ultime due domeniche di ottobre a Marciana e a Poggio stand enogatronomici propongono specialità della tradizione elbana a base di castagna come il pane di farina di castagne, il castagnaccio, i formaggi, le torte, le tagliatelle e le polente di castagne, oltre alle classiche caldarroste e castagne bollite irrorate da abbondante vino rosso.
Fonte: infoelba
¹ Il ceduo (dal latino caedo, “io taglio”) è una forma di governo del bosco che si basa sulla capacità di alcune piante di emettere ricacci se tagliate. Questo tipo di formazione boschiva è quindi costituita essenzialmente da polloni, cioè da alberi provenienti da rinnovazione agamica (moltiplicazione vegetativa). Con il taglio il popolamento non viene sostituito nella sua totalità ma solo nella parte epigea.
Fonte: Wikipedia
Silvestre Ferruzzi