STORIA
AITHALE
L’Isola d’Elba tra Tirreno e Mediterraneo
Miti, storie, archeologie
Della ricchezza del patrimonio storico e culturale dell’Isola d’Elba e dell’Arcipelago Toscano si è detto e scritto anche troppo, quasi fino alla noia. Ma, dato che ripetere le cose fa bene (repetita iuvant, dicevano i Romani), provo a rafforzare questo concetto. Fra l’altro, quando si parla di patrimonio culturale, ovvero di tutte le testimonianze, conoscenze, sapienze accumulate da una comunità durante la sua lunga storia, ci si riferisce a espressioni molto diverse: reperti archeologici, monumenti, opere artistiche, manifestazioni etnoantropologiche, tutte cose che configurano la cultura di questa o di quella comunità di persone. Come dice la “Convenzione di Faro”, possiamo parlare di Comunità di eredità, ovvero “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”. Ora, io non so se gli Elbani e più in generale gli isolani dell’Arcipelago abbiano questa consapevolezza. Probabilmente sì ma su questo punto servirebbe un maggiore approfondimento e, magari anche un’indagine demoscopica. In questo articolo tenterò di fare emergere, più che la consueta storia dell’Elba, partendo dall’età della pietra per arrivare ai giorni nostri, quelli che a me sembrano essere i caratteri più attrattivi di questa originale geografia insulare nel tempo.
Un’isola multietnica?
I primi, intensi, contatti con il mondo esterno risalgono almeno al Neolitico, periodo in cui l’Elba non appare densamente frequentata, almeno al confronto con altri ambiti in questo periodo, che vede diffondersi e consolidarsi l’agricoltura. Vi sono, comunque, scambi e contatti piuttosto articolati. Nel III millennio, con le innovazioni tecnologiche della metallurgia, la compagine economica e sociale cambia sensibilmente. È questo il tempo dello sfruttamento dei pochi affioramenti di rame presenti nell’isola; è il tempo della grotta di San Giuseppe, presso Rio nell’Elba, dove vennero seppelliti i defunti di un villaggio piuttosto florido e popoloso, come ha dimostrato lo studio antropologico dei resti (circa 90 individui). L’età del Bronzo fu il tempo dei pastori, concentrati soprattutto nel versante occidentale, fra il Monte Capanne e il Monte Giove e residenti in piccoli villaggi con un’economia prevalentemente pastorale, basata sul latte, sulla carne e sulle pelli. Già in questa fase così remota la posizione geografica ed altimetrica lascia intuire che i villaggi controllassero strategicamente il territorio e il mare. Del resto, doveva esserci anche una cospicua produzione di sale, senza la quale è difficile immaginare l’allevamento pastorale e la produzione di formaggi. A questa fase risalgono stretti contatti con le popolazioni della Corsica, che hanno, peraltro, lasciato tracce profonde anche nella toponomastica elbana, con particolare riferimento al versante occidentale. Appare sempre più necessario studiare in maniera adeguata questa Elba così remota e speriamo che le ricerche in corso da parte di Silvestre Ferruzzi e della meritoria “Associazione Pedalta” possano presto approfondire la conoscenza dei numerosi percorsi e caprili dell’Elba occidentale, molti dei quali hanno certamente origini molto lontane nel tempo.
Mentre altrove nascono le città
Poco prima di quello che per noi è l’anno 1000 a.C., il Mediterraneo è sconvolto da eventi traumatici: cataclismi, guerre, movimenti di popoli, diffusione di tecnologie che condizionarono anche l’esistenza di grandi regni come quello egizio. Nel mare Egeo la distruzione di Troia è uno dei riflessi di questi sconvolgimenti. Si apre un’epoca completamente nuova, di grandi migrazioni, di lunghe navigazioni, di grandi ricerche di ricchezze: nuovi spazi, nuova terra, nuove risorse, non ultime quelle minerarie e, fra queste, il metallo più forte di tutti: il ferro. Come anche altre isole, l’Elba e l’Arcipelago che chiamiamo Toscano divennero punti di riferimento precisi per la navigazione mediterranea. Incontrare l’Elba lungo le grandi rotte, che dal Mediterraneo orientale portavano verso l’Occidente, voleva dire poter contare su grandi disponibilità di acqua potabile, di cibo e… di minerale. E questo valeva per i Fenici, per gli Etruschi e per i Greci. L’ impronta ellenica dell’isola traspare dalla frequenza degli oggetti di produzione o di provenienza greca a terra, e nei relitti e dai relitti toponomastici, in varia misura attribuibili ad alcuni luoghi particolarmente significativi. Il nome dell’isola, anzitutto, è indubitabilmente greco: Aethalia, o Aithale, è l’isola “fuligginosa” o, meglio, “colore della fuliggine”, secondo il punto di osservazione dei navigatori antichi. L’elemento cromatico assume un rilievo anche maggiore considerando altri toponimi, ugualmente coloristici ma di senso opposto: all’Elba ci sono due Capi Bianchi (Portoferraio e Porto Azzurro), una Punta Bianca (Capoliveri) e la Spiaggia delle Pietre Albe presso Pomonte. Tutto questo ha lasciato tracce profonde nel mito e nella letteratura antica. La rada di Portoferraio è densa di riferimenti mitologici e letterari. Il Porto Argoo coincide con l’attuale Portoferraio e venne così chiamato, secondo gli antichi Diodoro Siculo e Strabone, a seguito della sosta della nave di Giasone e degli Argonauti (la nave Argo, appunto), che qui avrebbero fatto tappa durante la ricerca del vello d’oro. Da qui nasce il mito per cui, a seguito di una serie di gare sportive fra loro, gli Argonauti avrebbero macchiato con il loro sudore la roccia bianchissima del luogo, tanto da renderla inconfondibile. Il mito e il racconto, tutt’altro che infondati, trovano riscontro proprio nelle caratteristiche rocce bianche (aplite) picchiettate di nero (tormalina) del promontorio di Capo Bianco, della spiaggia delle Ghiaie e della collina del Lazzeretto, nel mezzo della rada. Tutto questo, al di là delle difficoltà di interpretazione che i miti sempre pongono, è interessante perché fa capire come l’Elba fosse un luogo assolutamente centrale nel quadro strategico del Mediterraneo: isola che attraeva Greci, Fenici, Etruschi ma anche luogo del contatto con le civiltà della Sardegna e della Corsica.
Un’Isola militarizzata
L’Elba fu, come sempre nella sua storia, un’isola senza città ma non per questo meno importante; un territorio strategicamente centrale, ma ancor più un bacino di approvvigionamento di assoluto rilievo. Paradossalmente, nella rada di Portoferraio la presenza di una comunità originaria della Corsica fu, per molto tempo, per buona parte del I millennio a.C., di importanza pari a quella della comunità etrusca. Si può a buon diritto parlare di un’isola molto multietnica fin da tempi molto lontani. Sorvolo, almeno per questa volta, il discorso relativo all’estrazione del minerale e alla produzione del ferro. È comunque quasi certo che questa risorsa dovesse ben presto dettare a Populonia la necessità di fortificare l’isola non diversamente da quanto aveva fatto sul continente. Le fortezze d’altura sono, da adesso, il segno sia della prosperità da difendere (miniere, navigazione, traffici) sia della paura che comincia a incombere sul Tirreno: paura prima dei Greci e dei Cartaginesi, poi dei Romani. Non fu la prima (c’erano già stati i villaggi fortificati dell’età del Bronzo) né l’ultima volta in cui l’Elba viene pesantemente militarizzata. Dopo verranno le torri della Repubblica di Pisa, le città militari dei Medici e degli Spagnoli, le fortezze di epoca napoleonica, i bunker in cemento con cui Mussolini, nella seconda guerra mondiale, pretese di difendere la “Sentinella avanzata dell’Impero”. La prima fase delle fortezze sembra concludersi violentemente, come testimoniano le tracce d’incendio e di crollo subite da queste strutture, tra gli inizi e la metà del III secolo a.C.. È difficile dire se in questi eventi drammatici si debba leggere un intervento cartaginese all’alba della prima guerra punica, in evidente funzione antiromana, oppure, come sembra più plausibile, un intervento dei Romani al momento della conquista dell’Etruria settentrionale.
L’incorporazione dell’arcipelago nell’orbita romana si compie, con ogni probabilità, nel corso della prima metà del III secolo a.C. e venne preceduta da una forte pressione espansionistica, dimostrata dalla circolazione di merci romane e laziali. In questa assimilazione giocarono un ruolo importante alcune grandi casate gentilizie romane: gli Aemilii, i Fabii, gli Aurelii, i Valerii, i Cornelii. Dopo alcune fasi di intensificazione progressiva della produzione del ferro (come ha mostrato lo scavo dell’insediamento di San Bennato, presso Cavo) e dopo la grande rivoluzione industriale del II secolo a.C., con livelli di produzione metallurgica elevatissimi, tutto questo ha fine. Si assiste dapprima ad una flessione nell’attività estrattiva e poi ad una sua cessazione, dovuta forse all’acquisizione di nuove miniere (Spagna, Norico, Sardegna). Lo scavo attualmente in corso a San Giovanni, nella rada di Portoferraio mostra che già prima del 100 a.C. in questo settore importante del golfo di Portoferraio venne costruita una villa rustica. Il piano terra era destinato alla produzione agro-alimentare, il primo piano a funzioni residenziali. I pavimenti e le decorazioni architettoniche di questa villa rustica, per quanto mal conservate (la villa venne distrutta da un violento incendio) denotano l’appartenenza ad un rango sociale molto elevato e non hanno nulla da invidiare alle coeve domus costruite a Roma dalla aristocrazia senatoria. A costruirla fu, attorno al 130 a.C., la potente famiglia dei Valeri Messalla, già detentori di attività estrattive e metallurgiche nella zona. Ad uno di essi, forse il nipote o il pronipote del primo, forse il Marco Valerio Messalla, protettore delle lettere e delle arti nella Roma augustea, si deve la costruzione della grandissima e monumentale Villa delle Grotte, sul promontorio soprastante, la villa nella quale fu ospite lo sfortunato poeta Ovidio prima della sua partenza per la relegazione nel Mar Nero, nell’8 d.C.. Queste villae più grandi, fatte più per l’otium e la delectatio che per il fructus e la diligentia, rappresentano l’esito di una lunga fase di accumulazione economica favorevole alle aristocrazie senatorie, che aveva avuto nelle estrazioni minerarie e nella produzione del ferro il suo motore primario. La fine dello sfruttamento intensivo delle miniere del Campigliese e dell’Elba, e il crollo del fabbisogno di combustibile vegetale e di carbone portarono all’estinzione delle manifatture siderurgiche dell’isola e del continente e investirono in maniera radicale il paesaggio tardo repubblicano. Sull’isola, l’unica testimonianza relativa ad un centro, forse urbano, di epoca romana è la cittadina di Fabricia, così denominata dagli eruditi del 1700, in gran parte sepolta sotto l’attuale centro storico di Portoferraio. La vitalità dei traffici marittimi, all’interno dei quali l’Elba è inserita con i suoi porti, è ben percepibile per buona parte dell’età imperiale. La presenza in prossimità dei principali approdi e dei piccoli insediamenti sorti sui resti delle ville romane di materiali di importazione africana, spagnola e dall’area provenzale, testimonia il prosieguo della vitalità degli scali elbani nelle rotte transmarine fino a gran parte del VI secolo d.C., ed una continuità nella frequentazione di determinate aree, legata verosimilmente alle caratteristiche morfologiche e alla vicinanza agli approdi. Le ville romane della Linguella, delle Grotte e di Capo Castello, in stato di abbandono alla fine del III secolo d.C., sono rioccupate in epoca tardo antica, tra il IV e gli inizi del VI secolo d.C.. Si tratta di piccole comunità insediatesi tra i ruderi delle ville, dedite verosimilmente ad attività agricolo-pastorali oppure, e questo è molto interessante ma ancora da dimostrare, di comunità di monaci, probabilmente ispirati alla Regola di San Basilio oppure a quella di San Pacomio. Un popoloso monastero è attestato dalle fonti storiche e dalle strutture archeologiche a Capraia. Il fenomeno attende di essere studiato nei suoi molti risvolti. Mentre il vecchio mondo declinava, il monachesimo andò sempre più strutturandosi. Si passò dal modello di vita dei santi uomini che si ritiravano come eremiti nel deserto per pregare e vivere la loro diretta esperienza con il divino, non di rado vittime della fame, della sete, delle belve o dei loro simili, al modello del cenobio: comunità a volte piccole, a volte numerose di monaci non più soli attorno alle quali andarono aggregandosi piccole società locali, in qualche modo alternative alle reti urbane e a quelle rurali. L’arrivo di eventuali monaci potrebbe anche legarsi alla fuga del vescovo di Populonia, poi Santo, Cerbone, perseguitato dai Longobardi e costretto a rifugiarsi sull’isola. Cerbone fu profugo dall’Africa, come si sa, al pari di altri prelati dell’epoca, forse più rifugiato politico che “migrante economico”. Ma qui si apre un’altra lunga e complicata storia, quella del Medioevo elbano, su cui va costruito un altro racconto… Concludo dicendo che questo immenso patrimonio di miti, di storie, di memorie, di archeologie, sepolte e non, è lì, anzi qui, che aspetta noi. Ci aspetta perché vuole essere recuperato, riordinato e raccontato. Deve essere raccontato a noi, e ai nostri figli e nipoti, perché sia sempre più forte la nostra consapevolezza di venire da luoghi e da tempi e da genti lontane, certo, ma anche di far parte di una comunità di eredità. Deve essere raccontato a chi viene presso di noi e desidera entrare a far parte della comunità. Deve essere raccontato a chi viene presso di noi anche per pochi giorni per far capire che abbiamo molti motivi di attrazione e questi motivi sono tutti buoni.
L’articolo è stato scritto da Franco Cambi, docente presso l’Università di Siena di “Archeologia dei Paesaggi”, per il magazine di promozione turistica Elba Per2 e non solo… Edizione 2018/2019.